lunedì 2 dicembre 2013

Donna vuol dire danno? Si ve lo possiamo procurare qualche danno

"Ma tu chi voti?"
"Civati" come se peraltro non si fosse ancora capito, visto che probabilmente ci sono persone che cambiano strada e numero di telefono pur di non farsi invischiare in un mio monologo apologetico e in una ennesima esposizione del perché scegliere proprio lui.
"Ah, Civati beh si è un bel ragazzo, posso capire"
Storie di un'ordinaria discussione con un militante attivo, attivissimo.
Da cui si evincono le seguenti cose:
- non si è stati ad ascoltare mentre parlavo del perché, non si è dato il minimo peso alla dettagliata discussione che è sempre stata da me portata avanti.
- si racchiude il più bel progetto politico degli ultimi -n anni in un'ennesima, superficiale concezione
- si svilisce il senso stesso della discussione, del dialogo interno spostandolo su piani per nulla afferibili al contesto in cui ci troviamo

Ah, sì, piccolo dettaglio: dimenticavo che sono una donna, pertanto non pensante, limitata e quindi indegna di avere un peso nel contesto politico fortemente maschilista e misogino.
Si, si anche nel mio partito.
Per questo voglio cambiare pagina.
Ah e non mi stanco mica di provarci, non ancora.

chiara

sabato 30 novembre 2013

Lo strano caso del cane scalzo

Lo strano caso del cane scalzo

Lo vedo ogni giorno passare, sotto la pioggia battente e quando il sole tiepido scioglie la leggera lastra cristallina di queste giornate di settembre.
La mattina presto, mentre mi avvio col mio solito passo strisciante verso la fermata dell’autobus, mi passa davanti, saltella in una danza quasi calcolata mentre gira e rigira la testa, quasi in cerca di qualcosa o di qualcuno.
Un bel colore cioccolato, caldo e avvolgente, toglie dalla testa il pensiero della grigia giornata sui numeri, degli astratti calcoli, dei pacchetti azionari, dei grafici pungenti che ogni giorno sono costretto a macinare.
La prima volta che ho visto quel cane attraversare la strada, con quella nonchalance di chi non si preoccupa delle dinamiche del Mondo, non l’avrei certo notato né minimamente il mio sguardo, solitamente assente, si sarebbe posato su di lui, non fosse per quelle sue zampe nere come il petrolio, talmente scure e sproporzionatamente grandi che non potevo evitare di notarle.
Tre zampe così particolari che mi sembrava di aver visto un cane con le scarpe, tranne una, una zampa più piccola e marrone e sentii dietro di me tre ragazzetti che urlavano e sghignazzavano verso quel poveretto che chiamarono cane scalzo.
Ecco che arriva l’autobus, la giornata poteva proseguire, non c’era tempo per fantasticare su quel particolare ma, completamente inutile evento.
Con passo frenetico la gente spintonava per salire sulla 25b delle 6.45, una massa informe di gente che per quanto mi riguardava poteva ben starsene a dormire, nel caldo del loro letto e non importunarmi con le sue domande su orari, coincidenze e timbrature di biglietto.
Non capivo tutta quella frenesia, quel vociare assurdo di cose così futili, la mia inedia era la mia corazza finché non fossi arrivato al Palazzo ogni cosa mi dava fastidio, tutto era vacuo, superfluo e al limite del fastidioso.
Come ogni giorno arrivai nel mio studio, una stanza sobria ed elegante al nono piano del Palazzo, accesi il PC, mi accesi una sigaretta e accesi anche il mio cervello: l’apatia che mi aveva condizionato fino a quel momento si sciolse così rapidamente che due minuti dopo i miei occhi già fissavano la luce blu dello schermo e tutto intorno si dissipò, lasciandomi in contatto con quel mio mondo fatto di numeri.
Alle dieci esatte entrò Alice col mio solito caffè nero, senza zucchero, deve aver detto qualcosa ma non la badai, forse stava alludendo al fatto che ieri l’ho mandata a casa alle dieci e mezza di sera, ma è il suo lavoro no, collabora con uno dei broker più quotati degli ultimi anni, non vedo cos’altro potrebbe farla più felice, può uscire sempre firmata e viaggiare nelle capitali europee a spese totalmente a mio carico, passeggiare il sabato sotto gli sguardi invidiosi delle sue coetanee e guadagnare più di quanto potesse sperare col suo diploma di perito aziendale.
Mi irritavano sempre quelle sue lamentele sull’orario, le sue pretese di stare a casa la domenica mattina o di riconoscerle permessi, in fin dei conti era il suo lavoro e il successo ha un prezzo.
Non mi distrassi di certo per certe piccolezze ma continuai a snocciolare complicati calcoli a ricevere i miei clienti e a leggere i vari report che i miei collaboratori mi avevano inviato.
L’orologio era impietoso, le lancette non mi lasciavano scampo, era tardi troppo tardi e non sarei riuscito ad arrivare in tempo all’appuntamento con Lily, le avrei dato buca anche oggi.
Non mi sarebbe dispiaciuta una serata al Geisha bar con lei, dopo qualche drink la serata proseguiva sempre con fuochi d’artificio, ma stasera non mi potevo distrarre, questo periodo era troppo delicato, le Borse erano in tumulto, fallire anche di poco le mie previsioni mi avrebbe mandato in rovina, no non ci sarebbe stata nessuna serata, avrei recuperato magari domani sera con Amanda, lei non si tira mai indietro, mi baste farle trovare un brillante nella buca delle lettere e mezz’ora dopo è nel mio letto, pronta a tutto, per me e per i miei soldi.
Erano ormai le ventidue e cinquanta quando Alice entrava nel mio studio, la voce decisa improvvisamente rotta dai singhiozzi, non potevo costringerla a rimanere così con uno stizzito “vattene a casa!” me la levai di torno ma poco dopo rincasai anch’io.
La mattina dopo, solito appuntamento con la 25b, intendiamoci potevo permettermi di arrivare all’ufficio in altri modi, ma la scaramanzia mi suggeriva che con l’autobus avevo iniziato  costruire la mia fortuna e con quello stesso autobus avrei continuato a coltivarla.
Ed ecco li, zampettando senza pensieri il cane scalzo, come il giorno prima attraversò la strada e arrivato dall’altra parte sparì di nuovo dietro il cespuglio del parchetto.
Continuò così per altri due tre giorni e sempre lo stesso scenario, traghettava le sue pesanti zampe al di là della statale e scompariva, dietro un cespuglio.
La mia solita concentrazione in quei giorni dava dei segni di cedimento, il mio cervello non era più isolato, quel cane, quel cane veniva a farmi visita nei pensieri, si intrufolava tra le mie schede elettroniche.
Iniziavo ad irritarmi, niente aveva smosso la mia mente calcolatrice, nulla, come poteva farlo un bizzarro cane?
Continuavo a vederlo mentre attraversava la statale in un’ora di traffico così intenso e ogni santissimo giorno in quel momento non passava una macchina, arrivava al cespuglio e spariva, non c’era una spiegazione, non una logica concatenazione di causa ed effetto.
Il giorno seguente, quello dopo ancora e quello dopo ancora tutto si svolgeva nella stessa identica maniera.
Dovevo seguire col cane, vedere dove andava ma soprattutto da dove arrivava, capire il perché quelle cose si ripetessero ogni giorno da circa una settimana; solo così potevo ritornare a concentrarmi e dimenticare questa assurda storia.
Non riuscivo a dormire, non poteva tormentarmi a tal punto una storia che per quanto insolita non avrebbe dovuto turbarmi più di tanto.
Iniziai a credere che fosse solo lo stress, che negli ultimi mesi aveva messo a dura prova i miei nervi, a farmi avere una reazione così spropositata, chiamai Amanda e mentre la aspettavo avevo aperto una bottiglia di rum cubano per placarmi un po’ i nervi.
Uscii una mezz’ora prima del solito, ben deciso a scoprire il tragitto di quel cane,  attesi con la pazienza con cui il pescatore attende che il pesce abbocchi, scrutando la direzione da cui solitamente arrivava, passeggiando in quella direzione, ma tenendo d’occhio anche altre possibili vie.
D’un tratto era li davanti a me, non avevo capito da dov’era venuto ma potevo ancora vedere dove andava, gli andai dietro ma mentre attraversavo fui costretto a retrocedere per non essere investito da un’ auto.
Corsi verso la mia 25b e per un attimo sorrisi, stavo giocando a fare il detective on un bizzarro cane, mentre i miei clienti attendevano consulenze della massima urgenza.
Ma per mezz’ora quel peso oppressivo che mi schiacciava la testa e mi stringeva la gola si era allentato, avevo provato una leggerezza, quasi il piacere del gioco.
Quella mattina feci accenno ad Alice di questa storia per caso mentre mi portava il caffè, notai però subito un’espressione turbata come se avessi toccato un nervo scoperto, ma doveva essere una mia impressione, così mi rimisi al lavoro.
Verso mezzogiorno entrò un cliente nuovo che si era presentato al telefono come signor Harris, la presentazione faccia a faccia ebbe per me l’effetto di un fulmine a ciel sereno: “Mi chiamo Robert Harris, per tutti sono Mr Bobby,mi fa un po’ ridere, sembra il nome di un cucciolo, alle volte mi immagino a scodinzolare”.
Quel rubicondo signore aveva davvero il nome di un cane, il nome del piccolissimo cucciolo della mia vecchia fidanzata Doris, glielo avevo regalato io qualche anno dopo che ci eravamo lasciati, l’avevo trovato in un canile e sapendo del suo amore innato per i cani glielo avevo fatto trovare sotto casa.
Ero deciso a rivederla, in realtà non ci eravamo proprio lasciati, ero partito per gli Stati Uniti con la massima urgenza, sarei dovuto star via qualche anno, ne andava della mia carriera, e senza avere il tempo di avvertirla partii.
 Quando ho provato a chiamarla mi ha detto che non ne avrebbe voluto più sapere nulla di me, avevo scelto la carriera, avevo scelto come sempre il denaro, che era sempre stato il muro più difficile da abbattere tra noi.
 Poi, al mio ritorno vidi quel cucciolo glielo feci trovare davanti alla porta con un biglietto di invito per la sera dopo. Non si presentò mai.
  Era un bell’esemplare, un cucciolo marrone, sul collare una simpatica targhetta azzurra con inciso il nome Bobby e con delle simpatiche sfumature nere su … tre zampe.
Non riuscivo a crederci, cominciai a sudare freddo, che scherzo era mai questo? Era mai possibile che quel cane fosse proprio Bobby?
Conclusi le mie trattative con il cliente, lo liquidai abbastanza freddamente, pur non essendo lui causa diretta dei miei turbamenti.
Chiamai Alice perché mi portasse dell’acqua, ma non rispose.
Corsi nel suo piccolo ufficio dall’altra parte del corridoio, la porta era spalancata ma lei non c’era.
Iniziai ad irritarmi, la chiamai in tono severo ma non ebbi risposta, non era rimasto nessuno nel complesso degli uffici, così mi resi conto che erano le tredici e a quell’ora tutti erano a pranzo, sospirai e cercai di calmarmi.
Uscii anche io dallo studio, annullai personalmente gli appuntamenti di quella giornata, ero stato troppo sotto tensione quel periodo, avevo bisogno una pausa e gli avvenimenti di quella giornata mi fornirono il pretesto per staccare la spina, visto che non sarei comunque riuscito a concludere nella di buono al lavoro.
Una passeggiata nel parco mi avrebbe di sicuro rilassato e sarei tornato l’indomani più fresco e riposato che mai.
Mi scrollai di dosso l’aria pesante e appiccicosa della metropoli, percorrendo i sentieri di quel grande parco a pochi passi dalla fumosa città.
Dimenticavo il piacere di una semplice passeggiata, le facevo spesso con Doris le lunghe passeggiate nel Parco, ma correvamo anche in bicicletta e spesso trascorrevamo fine settimana in giro per l’Europa.
Era stata una bella storia, ricca di emozioni, ma Doris aveva incominciato ad avanzare pretese circa la nostra situazione, voleva che andassimo a vivere assieme, aveva una casa in periferia, una casetta curata con un grazioso giardinetto sul davanti.
Ma io in quel periodo non potevo permettermelo, ero agli albori della mia carriera, una mente brillante avviata alla Finanza, stavo collezionando una serie di successi inarrestabile che mi avevano fornito un lasciapassare per gli States, e scelsi senza troppe remore di andare proprio là; per riconquistare Doris avrei avuto tempo, non avrebbe certo resistito a quest’uomo di successo, sarebbe diventata una regina.
Le cose come ho visto andarono diversamente e continuai a collezionare successi e donne, champagne e cocaina, soldi a palate.
E ora una semplice boccata d’aria fresca mi stava dando una sensazione di leggerezza che per anni avevo dimenticato.
Quando mi coricai la sera non potevo certo dire di essere un uomo nuovo, ma di certo ero un uomo che voleva cambiare, avevo trascurato così a lungo certe cose, chiamiamoli sentimenti o solo cura di sé che ero fortemente deciso a deviare certi miei atteggiamenti.
Guardai quel simpatico cagnetto che balzellava sulla strada, “Sicuramente non sei Bobby” gli dissi ironicamente “ma certo mi hai riportato a tua insaputa alla vita”.
Quella fortuita circostanza infatti mi aveva aperto la mente, mi aveva mostrato una luce calda dentro la mia vita ingrigita.
Alice non mi avevo portato il caffè, preoccupato scesi in portineria e chiesi se per caso fosse malata o in ritardo, anche se solitamente chiamava me in persona.
La centralinista mi guardò sbigottita: “Dottore ma Alice ieri sera, Alice ieri mi ha salutato e ha detto che non si sarebbe più presentata, che le aveva consegnato le dimissioni, che era costretta a farlo, io mi trovo adesso, ecco, un po’ in imbarazzo”, ed era evidente che la centralinista stesse palpitando di agitazione.
Chiamai al cellulare Alice, ma rispondeva solo e sempre la segreteria, ero sempre più agitato, sempre più stavo sprofondando in un vortice di angoscia, corsi le scale con il cuore che mi pulsava nelle tempie e affondai sulla sedia del mio studio, guadando a terra in preda allo sconforto.
Fu in quel momento che notai un foglietto rosa sul pavimento, forse mi era scivolato dalla scrivania, lo lessi in quell’istante, con la testa in fiamme: “ Bobby lo facevo passare io ogni mattina, ben attenta che non mi vedessi quando lo lasciavo, approfittando del tempo in cui non passavano le auto per via dei semafori rossi, e lo riprendevo dietro il cespuglio. E’ un cane ben addestrato, mi obbedisce sempre.
Speravo che quella bestiola ti ricordasse le tue colpe e questa storia così assurda accendesse in te un’angoscia tale da farti distrarre dal tuo lavoro, quando ho visto che iniziavi davvero a interessarti a quella strampalata visione mattutina volli essere sicura che riconoscessi in lui Bobby, ti ho mandato quindi un mio caro e ricco amico sotto il falso nome di Bobby poiché lo ricollegassi a quel cane.
Quando ce l’hai mandato sotto casa io ero già abbastanza grande per capire quello mia madre mi ha raccontato di te, che le hai preferito i tuoi soldi e la tua carriera.
Ma io non volevo crederci fino in fondo, mi sono fatta assumere, senza che lei lo sapesse, per vederti da vicino e come un’ombra sconosciuta conoscerti.
Non hai che confermato quanto avevo sentito dai racconti di mia madre, eri diventato ancora più cinico.
Ma avevo una carta importante in mano mia, provare a farti ricordare quello che è stato, provare a distogliere la tua sporca mente dal successo e sperare che in futuro riuscirai ad essere ancora un uomo migliore.
Tua figlia Alice.”
Svenni, quando mi ripresi, la centralinista era china su di me con l’aria di chi si pensa colpevole di aver detto qualcosa di troppo.
Dopo averla rassicurata uscii.
Non ebbi più notizia di Doris, Alice e Bobby.
Ho mollato tutto e sono diventato uno di quei tanti girovaghi che scoprono passo passo le meraviglie del mondo, vivendo di scoperte, ogni giorno.


Chiara casasola

giovedì 28 novembre 2013

PD tutto l'anno

E se ci immaginassimo che contano più le idee che la forma?
Se pensassimo ad un Partito che si ricorda di voi anche quando non ci sono primarie da organizzare, regionali da pubblicizzare, gazebo da allestire o volantini da consegnare?
Se per caso esistesse la possibilità che qualcuno si chieda il perché del vostro allontanamento da riunioni o corrispondenza telematica?
E' possibile, francamente realizzabile, far sì che si senta più la mancanza del vostro contributo durante tutto l'anno che solo nei momenti in cui serve perché è l'unica alternativa.
E se la "manovalanza" è, non solo necessaria, ma anche piacevole quando la si fa per uno scopo, diventa anche entusiasmante se a corollario di una gestione partecipata anche del resto.
Che poi sono sicura che tutti lo facciano volentieri, che per permettere a tutti di fruire dei momenti di partecipazione attiva sacrifichino ben volentieri una partita di calcio o un giro in centro, ma sono certa che lo farebbero con molto più entusiasmo se esistesse una forma di riconoscenza galante e cortese, e non ipocrita.
Io credo che questo tipo di partito si possa far emergere e per questo motivo (anche per questo) sostengo l'idea di Civati.
Ma non ci sarà Pippo in ogni circolo a spiegarci come fare, dovremo farlo noi. Chi crede a questo rinnovamento si deve mettere in moto ne suoi territori, riavviare la macchina che sembra essersi inceppata, e farlo assieme costa meno fatica.
Dobbiamo batterci affinché ogni contributo venga rispettato e non si crei quel gap, che da molte parti non riesce ad essere colmato, tra le idee di chi ha lauree, master ed esperienza lavorativa infinita e chi invece è disoccupato, operaio, meccanico o falegname. Perché forse il disoccupato ha anche una percezione più realistica di quelle che sono le problematiche cui dobbiamo trovare, se non delle soluzioni, quantomeno delle risposte.
E sono sicura che ci siano """"cuperliani""" o """renziani""" altrettanto concordi in questo.
Così non funziona proprio.
Magari in un altro modo funzionerà peggio, anche se non ne sono certo convinta, ma un tentativo a questo punto è doveroso.
Lo dobbiamo a noi stessi.

chiara

domenica 24 novembre 2013

Il viaggio in Italia della signorina Mc Gee


Visto che non mi piace parlare sempre di politica e attualità (anche perché non sono particolarmente competente) pubblicherò anche qualche racconto, inedito o no (non che siano mai stati "editi") per variare un po' (anche se non sono molto competente neppure in questo)...insomma l'incompetenza è la mia arte!!!



Il viaggio in Italia della signorina Mc Gee


Cos’è secondo voi il rumore?
Io credo che chi si è trovato almeno una volta al Carnevale di Venezia non possa non ritenerlo il perfetto figurarsi del rumore.
Piazza San Marco trabocca di bambini urlanti come aquile impazienti, di uomini il cui bulbo ingrossato dall’alcool brontola parole sconnesse e il suono dei violini sotto il portico trafigge il parlottare di due disinteressati colombi.
Di quando in quando il minaccioso suono della nave da crociera attira l’attenzione sulla sua enorme e strafottente mole, ignara di essere una sgraziata intrusa nella fragile Venezia.
“Gli Italiani amano il rumore” dissi a mia sorella Liz.
Lei sorrise, abbassando il capo a guardare la punta dei suoi piccoli piedi bianchi.
“Pensaci” continuai “ che differenza c’è tra il mercato che abbiamo visto a Napoli, le domeniche passate al caldo di Roma e qui?”
Mi voltai a guardare due cowboy che accerchiavano due infastidite damine settecentesche con fare più molesto che adulatore.
“Guarda, gli Italiani amano il chiasso, sono irruenti e rumorosi”
“Ma sono simpatici” mi rispose Liz, con l’espressione immutata tradita solo dal lieve rossore delle guance.
Mia sorella era molto bella, ma aveva una bellezza asessuata, angelica, sintomo visibile della fragilità che le stava corrodendo il corpo dopo averne intaccato l’anima.
Non parlava tanto, non lo faceva neanche da piccola, e questo rendeva difficile per la nostra famiglia capire l’origine di quel suo malessere.
Mangiava sempre meno, si chiudeva ore in camera e non usciva quasi più, neanche per andare al college.
Medici, psicologi e specialisti le hanno diagnosticato una forma di depressione.
Io non ho mai avuto dubbi, non avrei visto mia sorella, la persona con cui ho passato venti dei miei venticinque anni di vita, imbottirsi di psicofarmaci in una gelida camera della periferia inglese.
No. L’avrei portata a bagnarsi del tiepido sole italiano, a Firenze, a Roma, nelle colline morbide della Toscana e nelle addormentate periferie della penisola che fin dalla sua infanzia aveva sognato.
“Sono simpatici” risposi con poca convinzione e cercando di non lasciarmi annegare da quell’acqua alta di gente ingarbugliata e disordinata.
La sera eravamo invitate ad una festa in maschera, una di quelle noiosissime convenzioni che la nobile stirpe ci impone e che tutto sommato avrebbe potuto far bene a Liz.
Mentre strizzavo i miei fianchi pastosi nell’abito bianco guardavo l’evanescente Liz, una principessa triste vestita di tulle.
“Avessi io il tuo corpicino sorella” risi, sistemandomi i riccioli castani sotto una cuffia che mi stringeva le tempie e la nuca.
Liz se ne stava accucciata ai piedi del letto, zitta, nel suo tulle.
“Non voglio venire” disse “ per piacere non andiamo”
La presi per mano e ci incamminammo lungo le calli, ora deserte, di Venezia.
La luce fioca della luna rendeva la pelle bianca di mia sorella quasi trasparente.
Tremava e si appoggiava ogni dieci minuti alle ringhiere arrugginite dei ponticelli.
“Liz, ti senti bene? Vedrai che stasera ci divertiamo, non essere agitata”
Sapevo che la turbava il contatto con gli altri ma non poteva starsene sempre isolata, lei doveva guarire.
“Sto bene”
Una nuvola nera macchiò la luna sopra di me.
Liz non c’era più.
Il mio cuore balzò dalla gola alla testa e pensai di essere impazzita.
Era li, non poteva essere sparita.
Era li.
Liz non c’era più.
Iniziai a urlare il suo nome, a correre in quel dedalo di calli che non conoscevo.
La città aveva inghiottito mia sorella e io non sapevo dove andare.
Avevo paura.
Il vento si insinuava nei corridoi umidi per trafiggermi lo stomaco e farmelo vomitare.
Avevo paura.
Chiamai la polizia che si precipitò sul posto avvolta da una luce blu singhiozzo che tagliò il silenzio sibilante della notte.
“Faremo il possibile, adesso si tranquillizzi e cerchi di dormire” bofonchiò un poliziotto con lo sguardo da sardina che spuntava dal corpo affilato e spigoloso.
Passai la notte con il cellulare e la cornetta della stanza numero 322 dell’hotel a farmi muta compagnia.
E’ ironico, anche la compagnia di Liz era stata sempre silenziosa e alle volte pesante.
E’ pesante il silenzio che impenetrabile alza un muro tra noi e ciò che non sappiamo.
Fissai a lungo le pareti azzurre della stanza in cerca di un segnale oltre il muro.
Era una bella stanza, pulita, una poltrona di velluto bianco sedeva a fianco di un tavolo che profumava di lavanda.
Dal soffitto due putti mi osservavano curiosi e io ascoltavo il suono che non c’era attraverso la cornetta del telefono.
Da sotto il letto spuntava l’angolo di pelle sgualcita della valigia di Liz.
La aprii lentamente.
Una giacca di tweed, un paio di stivali al ginocchio per niente rovinati, qualche bracciale.
La valigia di una ragazza perbene, della provincia inglese.
Chissà che speravo di trovarci dentro.
Udii dei singhiozzi spezzare quell’atmosfera ammantata di tetro silenzio e mi precipitai alla porta per vedere cosa stava succedendo.
Dovetti tenermi alla maniglia d’ottone per non svenire.
Liz.
Le mani tremanti reggevano malamente il vestito strappato sopra il seno e un rigolo di sangue le lacerava il viso cereo.
“Mi ha seguito fino a qui” furono le parole che riuscì a dirmi prima di crollare a terra e scoppiare in un pianto convulso.
La portai in camera sorreggendo il lieve peso del corpo ferito.
Non potevo far altro che aspettare.
Aspettare che si calmasse e provasse a raccontarmi qualcosa, adesso che un forte squarcio aveva rotto il muro che la separava dal mondo.
Ora il suo macigno segreto avrebbe potuto eruttare.
“Mi ha seguito fin qui” ripeté sistemandosi la cuffia del suo vestito da damigella antica.
Rivedevo i suoi silenzi, il suo incedere incerto nelle vie lastricate di sampietrini lungo il tempo immobile della penisola e della sua testa.
Guardavo nei suoi occhi da formichina il sordo orrore rotto solo da qualche risata stonata, sciolta nelle zuccherose parole di qualche ragazzo italiano.
Gli Italiani sanno ammorbidire i lati spigolosi dell’esistenza.
E poi quell’ombra scura.
A Napoli ci aveva seguito tra i vicoli profumati di limone. Era lì, eppure prima d’oggi non l’avevo mai vista.
Ricordo l’aria fresca e scura di quel villaggio sugli Appennini, era lì, non potrei spiegare altrimenti i tremori convulsi di Liz quando guardava fuori dalla finestra.
Era davanti a me eppure non la vedevo.
“Liz, adesso smettila, mi devi spiegare, non puoi essere così egoista” dissi, sentendomi le guance andare a fuoco e tirando fuori quel rancore represso.
Anni passati a tutelare una sorella più debole, che vedevo come un’egoista viziata che giocava con le sue debolezze per fuggire dalle responsabilità della vita.
L’avevo portata in Italia, le avevo fatto fare tutto quello che aveva sognato per distrarla.
E lei?
Lei se ne stava zitta a piagnucolare, senza darmi il minimo indizio su quello che la stava torturando, lasciandomi immersa in un’angoscia senza perché.
“Dimmelo Liz, accidenti” incalzai sempre più spazientita.
“Mi seguirà ovunque e io non potrò farci nulla, non potrò scappare”
“Chi Liz, chi ti segue, per piacere, fammi capire”
“Mi segue”
Uscii dalla stanza e iniziai a correre.
Non conto i gradini che ho fatto correndo, con le costole che si stringevano sui polmoni, con le tempie che mi pulsavano al ritmo della nausea.
Dovevo fuggire o sarei impazzita.
Si trattava di scegliere se aiutare lei o me stessa, e per lei avevo già fatto tutto.
Compreso rimettere il caso alla polizia locale.
Presi il primo volo per la Provenza.
L
a distesa di lavanda irrorava i polmoni di linfa nuova.
Vivevo.
Il mio viso iniziava a colorarsi del tiepido sole francese mentre passeggiavo in bicicletta tra i sentieri di luce e i miei fianchi morbidi erano quelli di un gatto pacioccone che si stiracchia noncurante di ciò che succede nel mondo.
Socchiudendo gli occhi per ripararmi dal sole vidi avvicinarsi una figura esile, con abiti blu fin troppo pesanti per la stagione.
“Madamoiselle Mc Gee?”
Annuii.
“Vede, mi spiace doverle dare questa notizia, ma è il mio lavoro”
“Vada avanti”
“Sua sorella è stata trovata uccisa”
Mi appoggiai allo schienale di vimini, osservando l’uomo con la faccia da volpe di fronte a me, non troppo stupita da quello che mi aveva detto, quasi aspettassi un epilogo analogo.
“Come sa la sua malattia l’aveva già parecchio debilitata e …”
“Quale malattia? Forse sta prendendo un granchio, mi permetta”
“Madamoiselle, sua sorella soffriva di anoressia”
Le gambe mi cedettero sotto il peso di un’evidenza fin troppo ingombrante.
Così ingombrante da non vederla.
Eppure quell’ombra ci aveva seguito.
Quell’ombra era partita dall’Inghilterra sul nostro aereo.

chiara

Il polveroso anfratto della Resistenza postmoderna

Ripropongo un racconto che avevo scritto un paio d'anni fa e che mi sembra in tema con queste giornate.

Una pianta ingiallita sbucava da un vaso abbandonato sul pavimento. Un poster con l’angolo superiore staccato. La parete bianca. L’intonaco scrostato.
 Sotto uno striscione azzurrino e bianco una ragazza sfogliava svogliatamente un giornale.
Le quattro.
Le mani grassocce delle ragazza afferrarono una penna e sul foglio comparve la scarna e appiattita figura di una donna blu, bianca e blu.
Le quattro e venti.
Il respiro affannato le arrossava il viso spugnoso mentre camminava su e giù nella stanza vuota, oscillando a ogni eco dei suoi passi pesanti.
Le quattro e trenta.
Non si era visto nessuno quel giorno e Valeria aveva dato la sua disponibilità fino alle sette .
Ancora due ore e mezza.
L’umidità le stava entrando nelle ossa e sapeva che fuori i suoi coetanei stavano passeggiando con un gelato in mano e il sole negli occhi.
Lei preferiva starsene in un buio tugurio col ronzare della corrente elettrica sopra la testa ad aspettare.
Si sentiva viva solo così, aspettando che entrasse qualcuno a informarsi, a chiedere notizie sulla lista, sul programma elettorale.
Lei aveva molto da dire, la sua gola bruciava spinta dalla foga delle parole che volevano uscire.
Sapeva i gesti giusti da fare, sapeva soppesare le parole e mantenersi equidistante dal centro e dalla sinistra, una perfetta esponente del centro sinistra.
Anche se dal giubbotto di jeans sbucava una scolorita t-shirt con una stella rossa, ricordo del viaggio in Messico che l’aveva poi, chissà perché, spinta li, nel buco dei moderati.
Si sistemò un ciuffo di capelli.
Le cinque e dieci.
Entrò un uomo proprio mentre si era decisa a sistemare quel poster cadente del Pd, ma interruppe volentieri il suo lavoro e salutò.
“Buonasera, posso aiutarla?”
L’uomo nascosto dal colletto alzato del trench color panna fece un cenno col capo e si appollaiò su uno sgabello, lasciando che i pantaloni eleganti lasciassero scoperte le scarpe lucide.
“Vorrei che mi spiegasse perché dovrei votarvi” disse il vecchio in tono secco aggrottando due pelose sopracciglia giallastre.
Valeria stava per iniziare l’apologia più ben costruita del dopoguerra sull’importanza dei giovani in politica e sul rinnovamento culturale quando fu attratta da un ciondolo che penzolava dal polso dell’uomo.
Quell’aquila ad ali spiegate la stava guardando in aperta sfida.
L’uomo la incalzò “Allora ragazza, perché vi dovrei votare”
La voce calda e cadenzata era accompagnata dal roteare placido della caviglia del suo interlocutore, che la stava guardando: fissi gli occhi su quelli infuocati di lei.
Valeria deglutì un’amara saliva che le corrose la gola, sciogliendo le parole che vi soggiornavano da mesi pronte ad uscire.
Si voltarono di scatto entrambi, Valeria sobbalzando e col respiro sempre più affannoso, risvegliati dal rumore secco del poster che cadeva lasciando scoperta una vecchia bandiera del Pci.
Valeria guardò dritto negli occhi l’uomo, ancora semicoperto dal bavero del suo impermeabile, lo sguardo fermo sotto una pelle marmorea.
“Perché la Resistenza non è ancora finita”



 chiara