Lo
strano caso del cane scalzo
Lo vedo ogni giorno passare, sotto la pioggia
battente e quando il sole tiepido scioglie la leggera lastra cristallina di
queste giornate di settembre.
La mattina presto, mentre mi avvio col mio
solito passo strisciante verso la fermata dell’autobus, mi passa davanti,
saltella in una danza quasi calcolata mentre gira e rigira la testa, quasi in
cerca di qualcosa o di qualcuno.
Un bel colore cioccolato, caldo e avvolgente,
toglie dalla testa il pensiero della grigia giornata sui numeri, degli astratti
calcoli, dei pacchetti azionari, dei grafici pungenti che ogni giorno sono
costretto a macinare.
La prima volta che ho visto quel cane
attraversare la strada, con quella nonchalance di chi non si preoccupa delle
dinamiche del Mondo, non l’avrei certo notato né minimamente il mio sguardo,
solitamente assente, si sarebbe posato su di lui, non fosse per quelle sue
zampe nere come il petrolio, talmente scure e sproporzionatamente grandi che
non potevo evitare di notarle.
Tre zampe così particolari che mi sembrava di
aver visto un cane con le scarpe, tranne una, una zampa più piccola e marrone e
sentii dietro di me tre ragazzetti che urlavano e sghignazzavano verso quel
poveretto che chiamarono cane scalzo.
Ecco che arriva l’autobus, la giornata poteva
proseguire, non c’era tempo per fantasticare su quel particolare ma,
completamente inutile evento.
Con passo frenetico la gente spintonava per
salire sulla 25b delle 6.45, una massa informe di gente che per quanto mi
riguardava poteva ben starsene a dormire, nel caldo del loro letto e non
importunarmi con le sue domande su orari, coincidenze e timbrature di
biglietto.
Non capivo tutta quella frenesia, quel
vociare assurdo di cose così futili, la mia inedia era la mia corazza finché
non fossi arrivato al Palazzo ogni cosa mi dava fastidio, tutto era vacuo,
superfluo e al limite del fastidioso.
Come ogni giorno arrivai nel mio studio, una
stanza sobria ed elegante al nono piano del Palazzo, accesi il PC, mi accesi
una sigaretta e accesi anche il mio cervello: l’apatia che mi aveva
condizionato fino a quel momento si sciolse così rapidamente che due minuti
dopo i miei occhi già fissavano la luce blu dello schermo e tutto intorno si
dissipò, lasciandomi in contatto con quel mio mondo fatto di numeri.
Alle dieci esatte entrò Alice col mio solito
caffè nero, senza zucchero, deve aver detto qualcosa ma non la badai, forse
stava alludendo al fatto che ieri l’ho mandata a casa alle dieci e mezza di
sera, ma è il suo lavoro no, collabora con uno dei broker più quotati degli
ultimi anni, non vedo cos’altro potrebbe farla più felice, può uscire sempre
firmata e viaggiare nelle capitali europee a spese totalmente a mio carico,
passeggiare il sabato sotto gli sguardi invidiosi delle sue coetanee e guadagnare
più di quanto potesse sperare col suo diploma di perito aziendale.
Mi irritavano sempre quelle sue lamentele
sull’orario, le sue pretese di stare a casa la domenica mattina o di
riconoscerle permessi, in fin dei conti era il suo lavoro e il successo ha un
prezzo.
Non mi distrassi di certo per certe
piccolezze ma continuai a snocciolare complicati calcoli a ricevere i miei
clienti e a leggere i vari report che i miei collaboratori mi avevano inviato.
L’orologio era impietoso, le lancette non mi
lasciavano scampo, era tardi troppo tardi e non sarei riuscito ad arrivare in
tempo all’appuntamento con Lily, le avrei dato buca anche oggi.
Non mi sarebbe dispiaciuta una serata al
Geisha bar con lei, dopo qualche drink la serata proseguiva sempre con fuochi d’artificio,
ma stasera non mi potevo distrarre, questo periodo era troppo delicato, le
Borse erano in tumulto, fallire anche di poco le mie previsioni mi avrebbe
mandato in rovina, no non ci sarebbe stata nessuna serata, avrei recuperato
magari domani sera con Amanda, lei non si tira mai indietro, mi baste farle
trovare un brillante nella buca delle lettere e mezz’ora dopo è nel mio letto,
pronta a tutto, per me e per i miei soldi.
Erano ormai le ventidue e cinquanta quando
Alice entrava nel mio studio, la voce decisa improvvisamente rotta dai
singhiozzi, non potevo costringerla a rimanere così con uno stizzito “vattene a
casa!” me la levai di torno ma poco dopo rincasai anch’io.
La mattina dopo, solito appuntamento con la
25b, intendiamoci potevo permettermi di arrivare all’ufficio in altri modi, ma
la scaramanzia mi suggeriva che con l’autobus avevo iniziato costruire la mia fortuna e con quello stesso
autobus avrei continuato a coltivarla.
Ed ecco li, zampettando senza pensieri il
cane scalzo, come il giorno prima attraversò la strada e arrivato dall’altra
parte sparì di nuovo dietro il cespuglio del parchetto.
Continuò così per altri due tre giorni e
sempre lo stesso scenario, traghettava le sue pesanti zampe al di là della
statale e scompariva, dietro un cespuglio.
La mia solita concentrazione in quei giorni
dava dei segni di cedimento, il mio cervello non era più isolato, quel cane,
quel cane veniva a farmi visita nei pensieri, si intrufolava tra le mie schede
elettroniche.
Iniziavo ad irritarmi, niente aveva smosso la
mia mente calcolatrice, nulla, come poteva farlo un bizzarro cane?
Continuavo a vederlo mentre attraversava la
statale in un’ora di traffico così intenso e ogni santissimo giorno in quel
momento non passava una macchina, arrivava al cespuglio e spariva, non c’era
una spiegazione, non una logica concatenazione di causa ed effetto.
Il giorno seguente, quello dopo ancora e
quello dopo ancora tutto si svolgeva nella stessa identica maniera.
Dovevo seguire col cane, vedere dove andava
ma soprattutto da dove arrivava, capire il perché quelle cose si ripetessero
ogni giorno da circa una settimana; solo così potevo ritornare a concentrarmi e
dimenticare questa assurda storia.
Non riuscivo a dormire, non poteva
tormentarmi a tal punto una storia che per quanto insolita non avrebbe dovuto
turbarmi più di tanto.
Iniziai a credere che fosse solo lo stress,
che negli ultimi mesi aveva messo a dura prova i miei nervi, a farmi avere una
reazione così spropositata, chiamai Amanda e mentre la aspettavo avevo aperto
una bottiglia di rum cubano per placarmi un po’ i nervi.
Uscii una mezz’ora prima del solito, ben
deciso a scoprire il tragitto di quel cane,
attesi con la pazienza con cui il pescatore attende che il pesce
abbocchi, scrutando la direzione da cui solitamente arrivava, passeggiando in
quella direzione, ma tenendo d’occhio anche altre possibili vie.
D’un tratto era li davanti a me, non avevo
capito da dov’era venuto ma potevo ancora vedere dove andava, gli andai dietro
ma mentre attraversavo fui costretto a retrocedere per non essere investito da
un’ auto.
Corsi verso la mia 25b e per un attimo
sorrisi, stavo giocando a fare il detective on un bizzarro cane, mentre i miei
clienti attendevano consulenze della massima urgenza.
Ma per mezz’ora quel peso oppressivo che mi
schiacciava la testa e mi stringeva la gola si era allentato, avevo provato una
leggerezza, quasi il piacere del gioco.
Quella mattina feci accenno ad Alice di
questa storia per caso mentre mi portava il caffè, notai però subito un’espressione
turbata come se avessi toccato un nervo scoperto, ma doveva essere una mia
impressione, così mi rimisi al lavoro.
Verso mezzogiorno entrò un cliente nuovo che
si era presentato al telefono come signor Harris, la presentazione faccia a
faccia ebbe per me l’effetto di un fulmine a ciel sereno: “Mi chiamo Robert
Harris, per tutti sono Mr Bobby,mi fa un po’ ridere, sembra il nome di un
cucciolo, alle volte mi immagino a scodinzolare”.
Quel rubicondo signore aveva davvero il nome
di un cane, il nome del piccolissimo cucciolo della mia vecchia fidanzata
Doris, glielo avevo regalato io qualche anno dopo che ci eravamo lasciati,
l’avevo trovato in un canile e sapendo del suo amore innato per i cani glielo
avevo fatto trovare sotto casa.
Ero deciso a rivederla, in realtà non ci
eravamo proprio lasciati, ero partito per gli Stati Uniti con la massima
urgenza, sarei dovuto star via qualche anno, ne andava della mia carriera, e
senza avere il tempo di avvertirla partii.
Quando
ho provato a chiamarla mi ha detto che non ne avrebbe voluto più sapere nulla
di me, avevo scelto la carriera, avevo scelto come sempre il denaro, che era sempre
stato il muro più difficile da abbattere tra noi.
Poi,
al mio ritorno vidi quel cucciolo glielo feci trovare davanti alla porta con un
biglietto di invito per la sera dopo. Non si presentò mai.
Era
un bell’esemplare, un cucciolo marrone, sul collare una simpatica targhetta
azzurra con inciso il nome Bobby e con delle simpatiche sfumature nere su … tre
zampe.
Non riuscivo a crederci, cominciai a sudare
freddo, che scherzo era mai questo? Era mai possibile che quel cane fosse
proprio Bobby?
Conclusi le mie trattative con il cliente, lo
liquidai abbastanza freddamente, pur non essendo lui causa diretta dei miei
turbamenti.
Chiamai Alice perché mi portasse dell’acqua,
ma non rispose.
Corsi nel suo piccolo ufficio dall’altra
parte del corridoio, la porta era spalancata ma lei non c’era.
Iniziai ad irritarmi, la chiamai in tono
severo ma non ebbi risposta, non era rimasto nessuno nel complesso degli
uffici, così mi resi conto che erano le tredici e a quell’ora tutti erano a
pranzo, sospirai e cercai di calmarmi.
Uscii anche io dallo studio, annullai
personalmente gli appuntamenti di quella giornata, ero stato troppo sotto
tensione quel periodo, avevo bisogno una pausa e gli avvenimenti di quella
giornata mi fornirono il pretesto per staccare la spina, visto che non sarei
comunque riuscito a concludere nella di buono al lavoro.
Una passeggiata nel parco mi avrebbe di
sicuro rilassato e sarei tornato l’indomani più fresco e riposato che mai.
Mi scrollai di dosso l’aria pesante e
appiccicosa della metropoli, percorrendo i sentieri di quel grande parco a
pochi passi dalla fumosa città.
Dimenticavo il piacere di una semplice
passeggiata, le facevo spesso con Doris le lunghe passeggiate nel Parco, ma
correvamo anche in bicicletta e spesso trascorrevamo fine settimana in giro per
l’Europa.
Era stata una bella storia, ricca di
emozioni, ma Doris aveva incominciato ad avanzare pretese circa la nostra
situazione, voleva che andassimo a vivere assieme, aveva una casa in periferia,
una casetta curata con un grazioso giardinetto sul davanti.
Ma io in quel periodo non potevo
permettermelo, ero agli albori della mia carriera, una mente brillante avviata
alla Finanza, stavo collezionando una serie di successi inarrestabile che mi
avevano fornito un lasciapassare per gli States, e scelsi senza troppe remore
di andare proprio là; per riconquistare Doris avrei avuto tempo, non avrebbe
certo resistito a quest’uomo di successo, sarebbe diventata una regina.
Le cose come ho visto andarono diversamente e
continuai a collezionare successi e donne, champagne e cocaina, soldi a palate.
E ora una semplice boccata d’aria fresca mi
stava dando una sensazione di leggerezza che per anni avevo dimenticato.
Quando mi coricai la sera non potevo certo
dire di essere un uomo nuovo, ma di certo ero un uomo che voleva cambiare,
avevo trascurato così a lungo certe cose, chiamiamoli sentimenti o solo cura di
sé che ero fortemente deciso a deviare certi miei atteggiamenti.
Guardai quel simpatico cagnetto che
balzellava sulla strada, “Sicuramente non sei Bobby” gli dissi ironicamente “ma
certo mi hai riportato a tua insaputa alla vita”.
Quella fortuita circostanza infatti mi aveva
aperto la mente, mi aveva mostrato una luce calda dentro la mia vita ingrigita.
Alice non mi avevo portato il caffè,
preoccupato scesi in portineria e chiesi se per caso fosse malata o in ritardo,
anche se solitamente chiamava me in persona.
La centralinista mi guardò sbigottita:
“Dottore ma Alice ieri sera, Alice ieri mi ha salutato e ha detto che non si
sarebbe più presentata, che le aveva consegnato le dimissioni, che era
costretta a farlo, io mi trovo adesso, ecco, un po’ in imbarazzo”, ed era
evidente che la centralinista stesse palpitando di agitazione.
Chiamai al cellulare Alice, ma rispondeva
solo e sempre la segreteria, ero sempre più agitato, sempre più stavo
sprofondando in un vortice di angoscia, corsi le scale con il cuore che mi
pulsava nelle tempie e affondai sulla sedia del mio studio, guadando a terra in
preda allo sconforto.
Fu in quel momento che notai un foglietto
rosa sul pavimento, forse mi era scivolato dalla scrivania, lo lessi in quell’istante,
con la testa in fiamme: “ Bobby lo facevo passare io ogni mattina, ben attenta
che non mi vedessi quando lo lasciavo, approfittando del tempo in cui non
passavano le auto per via dei semafori rossi, e lo riprendevo dietro il
cespuglio. E’ un cane ben addestrato, mi obbedisce sempre.
Speravo che quella bestiola ti ricordasse le
tue colpe e questa storia così assurda accendesse in te un’angoscia tale da
farti distrarre dal tuo lavoro, quando ho visto che iniziavi davvero a interessarti
a quella strampalata visione mattutina volli essere sicura che riconoscessi in
lui Bobby, ti ho mandato quindi un mio caro e ricco amico sotto il falso nome
di Bobby poiché lo ricollegassi a quel cane.
Quando ce l’hai mandato sotto casa io ero già
abbastanza grande per capire quello mia madre mi ha raccontato di te, che le
hai preferito i tuoi soldi e la tua carriera.
Ma io non volevo crederci fino in fondo, mi
sono fatta assumere, senza che lei lo sapesse, per vederti da vicino e come un’ombra
sconosciuta conoscerti.
Non hai che confermato quanto avevo sentito
dai racconti di mia madre, eri diventato ancora più cinico.
Ma avevo una carta importante in mano mia,
provare a farti ricordare quello che è stato, provare a distogliere la tua
sporca mente dal successo e sperare che in futuro riuscirai ad essere ancora un
uomo migliore.
Tua figlia Alice.”
Svenni, quando mi ripresi, la centralinista
era china su di me con l’aria di chi si pensa colpevole di aver detto qualcosa
di troppo.
Dopo averla rassicurata uscii.
Non ebbi più notizia di Doris, Alice e Bobby.
Ho mollato tutto e sono diventato uno di quei
tanti girovaghi che scoprono passo passo le meraviglie del mondo, vivendo di
scoperte, ogni giorno.
Chiara casasola