sabato 30 novembre 2013

Lo strano caso del cane scalzo

Lo strano caso del cane scalzo

Lo vedo ogni giorno passare, sotto la pioggia battente e quando il sole tiepido scioglie la leggera lastra cristallina di queste giornate di settembre.
La mattina presto, mentre mi avvio col mio solito passo strisciante verso la fermata dell’autobus, mi passa davanti, saltella in una danza quasi calcolata mentre gira e rigira la testa, quasi in cerca di qualcosa o di qualcuno.
Un bel colore cioccolato, caldo e avvolgente, toglie dalla testa il pensiero della grigia giornata sui numeri, degli astratti calcoli, dei pacchetti azionari, dei grafici pungenti che ogni giorno sono costretto a macinare.
La prima volta che ho visto quel cane attraversare la strada, con quella nonchalance di chi non si preoccupa delle dinamiche del Mondo, non l’avrei certo notato né minimamente il mio sguardo, solitamente assente, si sarebbe posato su di lui, non fosse per quelle sue zampe nere come il petrolio, talmente scure e sproporzionatamente grandi che non potevo evitare di notarle.
Tre zampe così particolari che mi sembrava di aver visto un cane con le scarpe, tranne una, una zampa più piccola e marrone e sentii dietro di me tre ragazzetti che urlavano e sghignazzavano verso quel poveretto che chiamarono cane scalzo.
Ecco che arriva l’autobus, la giornata poteva proseguire, non c’era tempo per fantasticare su quel particolare ma, completamente inutile evento.
Con passo frenetico la gente spintonava per salire sulla 25b delle 6.45, una massa informe di gente che per quanto mi riguardava poteva ben starsene a dormire, nel caldo del loro letto e non importunarmi con le sue domande su orari, coincidenze e timbrature di biglietto.
Non capivo tutta quella frenesia, quel vociare assurdo di cose così futili, la mia inedia era la mia corazza finché non fossi arrivato al Palazzo ogni cosa mi dava fastidio, tutto era vacuo, superfluo e al limite del fastidioso.
Come ogni giorno arrivai nel mio studio, una stanza sobria ed elegante al nono piano del Palazzo, accesi il PC, mi accesi una sigaretta e accesi anche il mio cervello: l’apatia che mi aveva condizionato fino a quel momento si sciolse così rapidamente che due minuti dopo i miei occhi già fissavano la luce blu dello schermo e tutto intorno si dissipò, lasciandomi in contatto con quel mio mondo fatto di numeri.
Alle dieci esatte entrò Alice col mio solito caffè nero, senza zucchero, deve aver detto qualcosa ma non la badai, forse stava alludendo al fatto che ieri l’ho mandata a casa alle dieci e mezza di sera, ma è il suo lavoro no, collabora con uno dei broker più quotati degli ultimi anni, non vedo cos’altro potrebbe farla più felice, può uscire sempre firmata e viaggiare nelle capitali europee a spese totalmente a mio carico, passeggiare il sabato sotto gli sguardi invidiosi delle sue coetanee e guadagnare più di quanto potesse sperare col suo diploma di perito aziendale.
Mi irritavano sempre quelle sue lamentele sull’orario, le sue pretese di stare a casa la domenica mattina o di riconoscerle permessi, in fin dei conti era il suo lavoro e il successo ha un prezzo.
Non mi distrassi di certo per certe piccolezze ma continuai a snocciolare complicati calcoli a ricevere i miei clienti e a leggere i vari report che i miei collaboratori mi avevano inviato.
L’orologio era impietoso, le lancette non mi lasciavano scampo, era tardi troppo tardi e non sarei riuscito ad arrivare in tempo all’appuntamento con Lily, le avrei dato buca anche oggi.
Non mi sarebbe dispiaciuta una serata al Geisha bar con lei, dopo qualche drink la serata proseguiva sempre con fuochi d’artificio, ma stasera non mi potevo distrarre, questo periodo era troppo delicato, le Borse erano in tumulto, fallire anche di poco le mie previsioni mi avrebbe mandato in rovina, no non ci sarebbe stata nessuna serata, avrei recuperato magari domani sera con Amanda, lei non si tira mai indietro, mi baste farle trovare un brillante nella buca delle lettere e mezz’ora dopo è nel mio letto, pronta a tutto, per me e per i miei soldi.
Erano ormai le ventidue e cinquanta quando Alice entrava nel mio studio, la voce decisa improvvisamente rotta dai singhiozzi, non potevo costringerla a rimanere così con uno stizzito “vattene a casa!” me la levai di torno ma poco dopo rincasai anch’io.
La mattina dopo, solito appuntamento con la 25b, intendiamoci potevo permettermi di arrivare all’ufficio in altri modi, ma la scaramanzia mi suggeriva che con l’autobus avevo iniziato  costruire la mia fortuna e con quello stesso autobus avrei continuato a coltivarla.
Ed ecco li, zampettando senza pensieri il cane scalzo, come il giorno prima attraversò la strada e arrivato dall’altra parte sparì di nuovo dietro il cespuglio del parchetto.
Continuò così per altri due tre giorni e sempre lo stesso scenario, traghettava le sue pesanti zampe al di là della statale e scompariva, dietro un cespuglio.
La mia solita concentrazione in quei giorni dava dei segni di cedimento, il mio cervello non era più isolato, quel cane, quel cane veniva a farmi visita nei pensieri, si intrufolava tra le mie schede elettroniche.
Iniziavo ad irritarmi, niente aveva smosso la mia mente calcolatrice, nulla, come poteva farlo un bizzarro cane?
Continuavo a vederlo mentre attraversava la statale in un’ora di traffico così intenso e ogni santissimo giorno in quel momento non passava una macchina, arrivava al cespuglio e spariva, non c’era una spiegazione, non una logica concatenazione di causa ed effetto.
Il giorno seguente, quello dopo ancora e quello dopo ancora tutto si svolgeva nella stessa identica maniera.
Dovevo seguire col cane, vedere dove andava ma soprattutto da dove arrivava, capire il perché quelle cose si ripetessero ogni giorno da circa una settimana; solo così potevo ritornare a concentrarmi e dimenticare questa assurda storia.
Non riuscivo a dormire, non poteva tormentarmi a tal punto una storia che per quanto insolita non avrebbe dovuto turbarmi più di tanto.
Iniziai a credere che fosse solo lo stress, che negli ultimi mesi aveva messo a dura prova i miei nervi, a farmi avere una reazione così spropositata, chiamai Amanda e mentre la aspettavo avevo aperto una bottiglia di rum cubano per placarmi un po’ i nervi.
Uscii una mezz’ora prima del solito, ben deciso a scoprire il tragitto di quel cane,  attesi con la pazienza con cui il pescatore attende che il pesce abbocchi, scrutando la direzione da cui solitamente arrivava, passeggiando in quella direzione, ma tenendo d’occhio anche altre possibili vie.
D’un tratto era li davanti a me, non avevo capito da dov’era venuto ma potevo ancora vedere dove andava, gli andai dietro ma mentre attraversavo fui costretto a retrocedere per non essere investito da un’ auto.
Corsi verso la mia 25b e per un attimo sorrisi, stavo giocando a fare il detective on un bizzarro cane, mentre i miei clienti attendevano consulenze della massima urgenza.
Ma per mezz’ora quel peso oppressivo che mi schiacciava la testa e mi stringeva la gola si era allentato, avevo provato una leggerezza, quasi il piacere del gioco.
Quella mattina feci accenno ad Alice di questa storia per caso mentre mi portava il caffè, notai però subito un’espressione turbata come se avessi toccato un nervo scoperto, ma doveva essere una mia impressione, così mi rimisi al lavoro.
Verso mezzogiorno entrò un cliente nuovo che si era presentato al telefono come signor Harris, la presentazione faccia a faccia ebbe per me l’effetto di un fulmine a ciel sereno: “Mi chiamo Robert Harris, per tutti sono Mr Bobby,mi fa un po’ ridere, sembra il nome di un cucciolo, alle volte mi immagino a scodinzolare”.
Quel rubicondo signore aveva davvero il nome di un cane, il nome del piccolissimo cucciolo della mia vecchia fidanzata Doris, glielo avevo regalato io qualche anno dopo che ci eravamo lasciati, l’avevo trovato in un canile e sapendo del suo amore innato per i cani glielo avevo fatto trovare sotto casa.
Ero deciso a rivederla, in realtà non ci eravamo proprio lasciati, ero partito per gli Stati Uniti con la massima urgenza, sarei dovuto star via qualche anno, ne andava della mia carriera, e senza avere il tempo di avvertirla partii.
 Quando ho provato a chiamarla mi ha detto che non ne avrebbe voluto più sapere nulla di me, avevo scelto la carriera, avevo scelto come sempre il denaro, che era sempre stato il muro più difficile da abbattere tra noi.
 Poi, al mio ritorno vidi quel cucciolo glielo feci trovare davanti alla porta con un biglietto di invito per la sera dopo. Non si presentò mai.
  Era un bell’esemplare, un cucciolo marrone, sul collare una simpatica targhetta azzurra con inciso il nome Bobby e con delle simpatiche sfumature nere su … tre zampe.
Non riuscivo a crederci, cominciai a sudare freddo, che scherzo era mai questo? Era mai possibile che quel cane fosse proprio Bobby?
Conclusi le mie trattative con il cliente, lo liquidai abbastanza freddamente, pur non essendo lui causa diretta dei miei turbamenti.
Chiamai Alice perché mi portasse dell’acqua, ma non rispose.
Corsi nel suo piccolo ufficio dall’altra parte del corridoio, la porta era spalancata ma lei non c’era.
Iniziai ad irritarmi, la chiamai in tono severo ma non ebbi risposta, non era rimasto nessuno nel complesso degli uffici, così mi resi conto che erano le tredici e a quell’ora tutti erano a pranzo, sospirai e cercai di calmarmi.
Uscii anche io dallo studio, annullai personalmente gli appuntamenti di quella giornata, ero stato troppo sotto tensione quel periodo, avevo bisogno una pausa e gli avvenimenti di quella giornata mi fornirono il pretesto per staccare la spina, visto che non sarei comunque riuscito a concludere nella di buono al lavoro.
Una passeggiata nel parco mi avrebbe di sicuro rilassato e sarei tornato l’indomani più fresco e riposato che mai.
Mi scrollai di dosso l’aria pesante e appiccicosa della metropoli, percorrendo i sentieri di quel grande parco a pochi passi dalla fumosa città.
Dimenticavo il piacere di una semplice passeggiata, le facevo spesso con Doris le lunghe passeggiate nel Parco, ma correvamo anche in bicicletta e spesso trascorrevamo fine settimana in giro per l’Europa.
Era stata una bella storia, ricca di emozioni, ma Doris aveva incominciato ad avanzare pretese circa la nostra situazione, voleva che andassimo a vivere assieme, aveva una casa in periferia, una casetta curata con un grazioso giardinetto sul davanti.
Ma io in quel periodo non potevo permettermelo, ero agli albori della mia carriera, una mente brillante avviata alla Finanza, stavo collezionando una serie di successi inarrestabile che mi avevano fornito un lasciapassare per gli States, e scelsi senza troppe remore di andare proprio là; per riconquistare Doris avrei avuto tempo, non avrebbe certo resistito a quest’uomo di successo, sarebbe diventata una regina.
Le cose come ho visto andarono diversamente e continuai a collezionare successi e donne, champagne e cocaina, soldi a palate.
E ora una semplice boccata d’aria fresca mi stava dando una sensazione di leggerezza che per anni avevo dimenticato.
Quando mi coricai la sera non potevo certo dire di essere un uomo nuovo, ma di certo ero un uomo che voleva cambiare, avevo trascurato così a lungo certe cose, chiamiamoli sentimenti o solo cura di sé che ero fortemente deciso a deviare certi miei atteggiamenti.
Guardai quel simpatico cagnetto che balzellava sulla strada, “Sicuramente non sei Bobby” gli dissi ironicamente “ma certo mi hai riportato a tua insaputa alla vita”.
Quella fortuita circostanza infatti mi aveva aperto la mente, mi aveva mostrato una luce calda dentro la mia vita ingrigita.
Alice non mi avevo portato il caffè, preoccupato scesi in portineria e chiesi se per caso fosse malata o in ritardo, anche se solitamente chiamava me in persona.
La centralinista mi guardò sbigottita: “Dottore ma Alice ieri sera, Alice ieri mi ha salutato e ha detto che non si sarebbe più presentata, che le aveva consegnato le dimissioni, che era costretta a farlo, io mi trovo adesso, ecco, un po’ in imbarazzo”, ed era evidente che la centralinista stesse palpitando di agitazione.
Chiamai al cellulare Alice, ma rispondeva solo e sempre la segreteria, ero sempre più agitato, sempre più stavo sprofondando in un vortice di angoscia, corsi le scale con il cuore che mi pulsava nelle tempie e affondai sulla sedia del mio studio, guadando a terra in preda allo sconforto.
Fu in quel momento che notai un foglietto rosa sul pavimento, forse mi era scivolato dalla scrivania, lo lessi in quell’istante, con la testa in fiamme: “ Bobby lo facevo passare io ogni mattina, ben attenta che non mi vedessi quando lo lasciavo, approfittando del tempo in cui non passavano le auto per via dei semafori rossi, e lo riprendevo dietro il cespuglio. E’ un cane ben addestrato, mi obbedisce sempre.
Speravo che quella bestiola ti ricordasse le tue colpe e questa storia così assurda accendesse in te un’angoscia tale da farti distrarre dal tuo lavoro, quando ho visto che iniziavi davvero a interessarti a quella strampalata visione mattutina volli essere sicura che riconoscessi in lui Bobby, ti ho mandato quindi un mio caro e ricco amico sotto il falso nome di Bobby poiché lo ricollegassi a quel cane.
Quando ce l’hai mandato sotto casa io ero già abbastanza grande per capire quello mia madre mi ha raccontato di te, che le hai preferito i tuoi soldi e la tua carriera.
Ma io non volevo crederci fino in fondo, mi sono fatta assumere, senza che lei lo sapesse, per vederti da vicino e come un’ombra sconosciuta conoscerti.
Non hai che confermato quanto avevo sentito dai racconti di mia madre, eri diventato ancora più cinico.
Ma avevo una carta importante in mano mia, provare a farti ricordare quello che è stato, provare a distogliere la tua sporca mente dal successo e sperare che in futuro riuscirai ad essere ancora un uomo migliore.
Tua figlia Alice.”
Svenni, quando mi ripresi, la centralinista era china su di me con l’aria di chi si pensa colpevole di aver detto qualcosa di troppo.
Dopo averla rassicurata uscii.
Non ebbi più notizia di Doris, Alice e Bobby.
Ho mollato tutto e sono diventato uno di quei tanti girovaghi che scoprono passo passo le meraviglie del mondo, vivendo di scoperte, ogni giorno.


Chiara casasola

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