domenica 24 novembre 2013

Il viaggio in Italia della signorina Mc Gee


Visto che non mi piace parlare sempre di politica e attualità (anche perché non sono particolarmente competente) pubblicherò anche qualche racconto, inedito o no (non che siano mai stati "editi") per variare un po' (anche se non sono molto competente neppure in questo)...insomma l'incompetenza è la mia arte!!!



Il viaggio in Italia della signorina Mc Gee


Cos’è secondo voi il rumore?
Io credo che chi si è trovato almeno una volta al Carnevale di Venezia non possa non ritenerlo il perfetto figurarsi del rumore.
Piazza San Marco trabocca di bambini urlanti come aquile impazienti, di uomini il cui bulbo ingrossato dall’alcool brontola parole sconnesse e il suono dei violini sotto il portico trafigge il parlottare di due disinteressati colombi.
Di quando in quando il minaccioso suono della nave da crociera attira l’attenzione sulla sua enorme e strafottente mole, ignara di essere una sgraziata intrusa nella fragile Venezia.
“Gli Italiani amano il rumore” dissi a mia sorella Liz.
Lei sorrise, abbassando il capo a guardare la punta dei suoi piccoli piedi bianchi.
“Pensaci” continuai “ che differenza c’è tra il mercato che abbiamo visto a Napoli, le domeniche passate al caldo di Roma e qui?”
Mi voltai a guardare due cowboy che accerchiavano due infastidite damine settecentesche con fare più molesto che adulatore.
“Guarda, gli Italiani amano il chiasso, sono irruenti e rumorosi”
“Ma sono simpatici” mi rispose Liz, con l’espressione immutata tradita solo dal lieve rossore delle guance.
Mia sorella era molto bella, ma aveva una bellezza asessuata, angelica, sintomo visibile della fragilità che le stava corrodendo il corpo dopo averne intaccato l’anima.
Non parlava tanto, non lo faceva neanche da piccola, e questo rendeva difficile per la nostra famiglia capire l’origine di quel suo malessere.
Mangiava sempre meno, si chiudeva ore in camera e non usciva quasi più, neanche per andare al college.
Medici, psicologi e specialisti le hanno diagnosticato una forma di depressione.
Io non ho mai avuto dubbi, non avrei visto mia sorella, la persona con cui ho passato venti dei miei venticinque anni di vita, imbottirsi di psicofarmaci in una gelida camera della periferia inglese.
No. L’avrei portata a bagnarsi del tiepido sole italiano, a Firenze, a Roma, nelle colline morbide della Toscana e nelle addormentate periferie della penisola che fin dalla sua infanzia aveva sognato.
“Sono simpatici” risposi con poca convinzione e cercando di non lasciarmi annegare da quell’acqua alta di gente ingarbugliata e disordinata.
La sera eravamo invitate ad una festa in maschera, una di quelle noiosissime convenzioni che la nobile stirpe ci impone e che tutto sommato avrebbe potuto far bene a Liz.
Mentre strizzavo i miei fianchi pastosi nell’abito bianco guardavo l’evanescente Liz, una principessa triste vestita di tulle.
“Avessi io il tuo corpicino sorella” risi, sistemandomi i riccioli castani sotto una cuffia che mi stringeva le tempie e la nuca.
Liz se ne stava accucciata ai piedi del letto, zitta, nel suo tulle.
“Non voglio venire” disse “ per piacere non andiamo”
La presi per mano e ci incamminammo lungo le calli, ora deserte, di Venezia.
La luce fioca della luna rendeva la pelle bianca di mia sorella quasi trasparente.
Tremava e si appoggiava ogni dieci minuti alle ringhiere arrugginite dei ponticelli.
“Liz, ti senti bene? Vedrai che stasera ci divertiamo, non essere agitata”
Sapevo che la turbava il contatto con gli altri ma non poteva starsene sempre isolata, lei doveva guarire.
“Sto bene”
Una nuvola nera macchiò la luna sopra di me.
Liz non c’era più.
Il mio cuore balzò dalla gola alla testa e pensai di essere impazzita.
Era li, non poteva essere sparita.
Era li.
Liz non c’era più.
Iniziai a urlare il suo nome, a correre in quel dedalo di calli che non conoscevo.
La città aveva inghiottito mia sorella e io non sapevo dove andare.
Avevo paura.
Il vento si insinuava nei corridoi umidi per trafiggermi lo stomaco e farmelo vomitare.
Avevo paura.
Chiamai la polizia che si precipitò sul posto avvolta da una luce blu singhiozzo che tagliò il silenzio sibilante della notte.
“Faremo il possibile, adesso si tranquillizzi e cerchi di dormire” bofonchiò un poliziotto con lo sguardo da sardina che spuntava dal corpo affilato e spigoloso.
Passai la notte con il cellulare e la cornetta della stanza numero 322 dell’hotel a farmi muta compagnia.
E’ ironico, anche la compagnia di Liz era stata sempre silenziosa e alle volte pesante.
E’ pesante il silenzio che impenetrabile alza un muro tra noi e ciò che non sappiamo.
Fissai a lungo le pareti azzurre della stanza in cerca di un segnale oltre il muro.
Era una bella stanza, pulita, una poltrona di velluto bianco sedeva a fianco di un tavolo che profumava di lavanda.
Dal soffitto due putti mi osservavano curiosi e io ascoltavo il suono che non c’era attraverso la cornetta del telefono.
Da sotto il letto spuntava l’angolo di pelle sgualcita della valigia di Liz.
La aprii lentamente.
Una giacca di tweed, un paio di stivali al ginocchio per niente rovinati, qualche bracciale.
La valigia di una ragazza perbene, della provincia inglese.
Chissà che speravo di trovarci dentro.
Udii dei singhiozzi spezzare quell’atmosfera ammantata di tetro silenzio e mi precipitai alla porta per vedere cosa stava succedendo.
Dovetti tenermi alla maniglia d’ottone per non svenire.
Liz.
Le mani tremanti reggevano malamente il vestito strappato sopra il seno e un rigolo di sangue le lacerava il viso cereo.
“Mi ha seguito fino a qui” furono le parole che riuscì a dirmi prima di crollare a terra e scoppiare in un pianto convulso.
La portai in camera sorreggendo il lieve peso del corpo ferito.
Non potevo far altro che aspettare.
Aspettare che si calmasse e provasse a raccontarmi qualcosa, adesso che un forte squarcio aveva rotto il muro che la separava dal mondo.
Ora il suo macigno segreto avrebbe potuto eruttare.
“Mi ha seguito fin qui” ripeté sistemandosi la cuffia del suo vestito da damigella antica.
Rivedevo i suoi silenzi, il suo incedere incerto nelle vie lastricate di sampietrini lungo il tempo immobile della penisola e della sua testa.
Guardavo nei suoi occhi da formichina il sordo orrore rotto solo da qualche risata stonata, sciolta nelle zuccherose parole di qualche ragazzo italiano.
Gli Italiani sanno ammorbidire i lati spigolosi dell’esistenza.
E poi quell’ombra scura.
A Napoli ci aveva seguito tra i vicoli profumati di limone. Era lì, eppure prima d’oggi non l’avevo mai vista.
Ricordo l’aria fresca e scura di quel villaggio sugli Appennini, era lì, non potrei spiegare altrimenti i tremori convulsi di Liz quando guardava fuori dalla finestra.
Era davanti a me eppure non la vedevo.
“Liz, adesso smettila, mi devi spiegare, non puoi essere così egoista” dissi, sentendomi le guance andare a fuoco e tirando fuori quel rancore represso.
Anni passati a tutelare una sorella più debole, che vedevo come un’egoista viziata che giocava con le sue debolezze per fuggire dalle responsabilità della vita.
L’avevo portata in Italia, le avevo fatto fare tutto quello che aveva sognato per distrarla.
E lei?
Lei se ne stava zitta a piagnucolare, senza darmi il minimo indizio su quello che la stava torturando, lasciandomi immersa in un’angoscia senza perché.
“Dimmelo Liz, accidenti” incalzai sempre più spazientita.
“Mi seguirà ovunque e io non potrò farci nulla, non potrò scappare”
“Chi Liz, chi ti segue, per piacere, fammi capire”
“Mi segue”
Uscii dalla stanza e iniziai a correre.
Non conto i gradini che ho fatto correndo, con le costole che si stringevano sui polmoni, con le tempie che mi pulsavano al ritmo della nausea.
Dovevo fuggire o sarei impazzita.
Si trattava di scegliere se aiutare lei o me stessa, e per lei avevo già fatto tutto.
Compreso rimettere il caso alla polizia locale.
Presi il primo volo per la Provenza.
L
a distesa di lavanda irrorava i polmoni di linfa nuova.
Vivevo.
Il mio viso iniziava a colorarsi del tiepido sole francese mentre passeggiavo in bicicletta tra i sentieri di luce e i miei fianchi morbidi erano quelli di un gatto pacioccone che si stiracchia noncurante di ciò che succede nel mondo.
Socchiudendo gli occhi per ripararmi dal sole vidi avvicinarsi una figura esile, con abiti blu fin troppo pesanti per la stagione.
“Madamoiselle Mc Gee?”
Annuii.
“Vede, mi spiace doverle dare questa notizia, ma è il mio lavoro”
“Vada avanti”
“Sua sorella è stata trovata uccisa”
Mi appoggiai allo schienale di vimini, osservando l’uomo con la faccia da volpe di fronte a me, non troppo stupita da quello che mi aveva detto, quasi aspettassi un epilogo analogo.
“Come sa la sua malattia l’aveva già parecchio debilitata e …”
“Quale malattia? Forse sta prendendo un granchio, mi permetta”
“Madamoiselle, sua sorella soffriva di anoressia”
Le gambe mi cedettero sotto il peso di un’evidenza fin troppo ingombrante.
Così ingombrante da non vederla.
Eppure quell’ombra ci aveva seguito.
Quell’ombra era partita dall’Inghilterra sul nostro aereo.

chiara

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